Bei dieser Ausgabe der Dialoge Meran sind Claudio Marazzini und Antonio Zoppetti zu Gast.
La lingua italiana: a rischio bridazione?
Venerdì 19 maggio, per la serie “Dialoghi Merano”, l’Accademia di Studi Italo-Tedeschi ha ospitato nella sua sede meranese un incontro, coordinato da Federico Guiglia, avente come relatori Claudio Marazzini, presidente onorario dell’Accademia della Crusca, e Antonio Zoppetti, saggista e linguista. Il titolo, “La lingua italiana compie 1063 anni: come li porta?”, suggeriva in parte un evento commemorativo o celebrativo, data la presenza, per via del suo insigne rappresentante, del più importante presidio di una lingua al mondo. Ma la presenza dell’autore del saggio “L’inglese nell’italiano: espansione per ibridazione” (consultabile sul sito Treccani) voleva far vertere la discussione su possibili nuove patologie che affliggono una lingua così “attempata”. Essere vecchi, nel mondo degli studia humanitatis, assurge però a status di saggezza, storicità, conforto della tradizione, non di “canuzie”. La storia della lingua italiana va infatti analizzata soprattutto longitudinalmente, essendosi arricchita di pensieri e conoscenze dipanatisi nel corso di più di un millennio e a sua volta, tramite la sua sorella maggiore, la lingua latina, dell’ampio serbatoio di introspezione e profondità di pensiero di derivazione greco-romana. Se ogni lingua si arricchisce di barbarismi o anche – ci insegnano i filologi – di lingue di sostrato, adstrato e superstrato, quando questa è veicolo culturale di un popolo prima invasore e poi invaso come quello italico, ci chiediamo cosa sia quella forza che potrebbe far divenire la lingua italiana non solo sostrato ma addirittura dialetto – come teme il Prof. Marazzini – della lingua nel mondo predominante, l’inglese. Dobbiamo premettere due cose. In primis, il mancato uso di anglicismi da parte di chi l’inglese come seconda lingua lo conosce ad alto livello di competenza. Chi scrive detesta infatti tale uso, che spesso scivola in ab-uso per via di una non corretta interpretazione e applicazione dei termini. Segue a questo un’importante presa d’atto: l’inglese internazionale, lingua franca, lingua veicolare, non è totalmente sovrapponibile all’inglese di “Oxbridge”: è un grande fiume semantico che trasporta pensieri mondiali contemporanei e soprattutto scientifici. È l’uso di questi ultimi, ci insegna il Prof. Marazzini, che garantisce ad una lingua immortalità d’uso, ma sono proprio questi che nella lingua italiana sembrano soccombere ai rispettivi di lingua inglese. Rispettivi? O solo d’uso – o abuso – comune?
Se di primo acchito ci viene in mente il carattere di brevità che contraddistingue la lingua inglese, da cui typewriter piuttosto che macchina da (meglio: per) scrivere, sussistono anche altre tipicità nelle lingue anglosassoni che conferiscono una sorta di economia lessicale nella proiezione del loro valore ontologico. Prima fra queste, una questione di mera struttura grammaticale: le lingue romanze pongono l’aggettivo dopo il sostantivo e quelle anglosassoni fanno il contrario (con risultante pregnanza connotativa che anticipa la presenza del termine stesso). Nel caso della lingua di Kant si va oltre: si creano singoli termini composti previa fusione di due o più elementi. Questo pone la lingua tedesca, per incisività lessicale, su un podio anche più alto della lingua inglese e ovviamente delle lingue romanze. Sprachschule = language school (EN), scuola di lingue (IT), école des langues (FR), escuela de idiomas (ES). In verità, anteporre l’aggettivo ha anche un’utilità pratica di tipo redazionale ma spesso frugale. Secondo la teoria di Eva Badura-Skoda, molte composizioni per pianoforte, quando questo era ancora un “cembalo a martelli”, sono state erroneamente attribuite al cugino “cembalo a penne” perché i frettolosi scrivani ed editori, in sede di stesura di atti d’archivio o censimento o pubblicazione, omettendo i predicati attributivi si limitavano al termine “cembalo”, primo in ordine di comparsa, cui tradizionalmente (ma erroneamente) si è conferito il significato univoco di “clavicembalo”. I tedeschi hanno risolto il problema a monte con i rispettivi termini Hammerflügel e Kielflügel. Gli inglesi, con il termine hammerharpsichord, e con tipico pragmatismo, hanno chiuso definitamente la questione e creato imbarazzo fra i tastieristi storici.
Dopo questa riflessione a buon titolo personale – chi scrive è un musicista quasi bilingue che pensa soprattutto in italiano e in inglese – quindi opinabile, chiediamoci il perché dell’ubiquitarietà di taluni termini inglesi laddove nessuna ragione di brevità, cogenza semantica, carica ontologica od altro, la giustifica. Diamo credito alla lingua inglese di avere, con i termini “mobbing” e “stalking”, non solo ampliato il nostro lessico ma anche svegliato le coscienze su determinati atti di importunio. Ma sostituire con “briefing” un “incontro consultivo” o una “discussione introduttiva” o un “dialogo preliminare” significa ridurre, de-connotare la specificità di ciò cui si vuol fare riferimento. Sostituire un termine della propria lingua con uno straniero può anche produrre il danno di alterare una consuetudine che ha una sua ragion d’essere. Quando gli italiani vanno a “pranzo” – sarebbe più corretto dire “colazione” – non fanno un lunch break. Il secondo soppianta il primo per ottemperare alla tempistica del lavoro nine-to-five (dalle 9 alle 17) e in questo caso, per ragioni soprattutto di commercio, borsa azionaria, relazioni internazionali, è utile non indulgere nel tradizionale pranzo degli italiani che scandisce l’attività lavorativa in due ben separate finestre temporali giornaliere. Un pranzo da primo-secondo-contorno-frutta non lo chiameremmo “pausa pranzo”, e qui faccio notare che “pausa” ha un connotato temporale più esteso di break, che ha più il valore di ”interruzione”. Altra componente della lingua italiana che al contempo la rende speciale ma difficile da assurgere a titolo di “lingua veicolare” è la sua storica propensione per la versificazione, elaborata, raffinata e coerente a se stessa ma così sottovalutata dagli stessi italiani. Leggere Petrarca in inglese significa assumerne i significati solo in parte, perché gli stessi si incarnano nei loro significanti, le parole e le loro sillabe, sapientemente collocate nell’architettura del verso e quindi della struttura del carme, da creare insieme al simbolo una triade semantica indissolubile. Ciò ha fatto, scandalizzandoci, Harold Bloom nel suo pur epocale The Western Canon, che nella lista degli “influenti” cita solo Dante. Nessun altro autore di quella lingua che quest’anno compie 1063 anni (dal suo atto di nascita ancora ufficiale, il Placito Capuano). Quali sono le soluzioni al pericolo, denunciato dal Prof. Marazzini, che una lingua non-inglese diventi il dialetto locale di una lingua internazionale parlata dalla maggior parte degli esseri umani? Una su tutte, forse, è rivolgersi all’Accademia della Crusca ogni qualvolta si voglia mutare una consuetudine lessicale (come il “maschile non marcato”, così definito dal linguista russo Roman Jakobson) perché loro, non la politica, hanno l’ultima parola sulla lingua italiana (dire “il virus colpisce gli uomini” non significa che questo escluda le donne, né che gli si manchi di rispetto). Altra soluzione sarebbe forse un totale e vero possesso sia della lingua madre, sia di quella veicolare. Meglio ancora conoscerne più di due, mutuando dagli idiomi del mondo la saggezza che essi veicolano, declinandola nella propria visione del mondo. La quale, ammettiamolo stavolta, suona bene con il termine inglese world view, ma ancora meglio con quello tedesco Weltanschaaung. Ma il sensuous thought, come lo descrive T. S. Eliot, della visio dei di Dante impariamolo a memoria e portiamocelo dentro: “A l’alta fantasia qui mancò possa; // ma già volgeva il mio disio e ‚l velle, // sì come rota ch’igualmente è mossa, // l’amor che move il sole e l’altre stelle.” (Divina Commedia, Paradiso, XXX, 142-145)
Carlo Grante